ARTICOLO DI ENNIO VIERO, TRATTO DALLA "STRENNA DEI ROMANISTI" DEL 21 APRILE 1968
(grazie ad Alessandro Bertoldi)


I 40 anni della A. S. Roma

«Quaranta anni fa, esattamente il 22 luglio 1927, nacque l'Associazione Sportiva Roma e la ricorrenza festosa è stata recentissimamente celebrata con una serie di simpatiche cerimonie e con la consegna di medaglie d'oro ai giocatori che fecero parte della primissima formazione giallorossa, o che vi appartennero negli anni che seguirono.

Senza voler fare alcun torto alla Lazio, altro glorioso sodalizio le cui origini risalgono al principio del secolo e che ha sempre fatto onore allo sport romano, non si può negare che la Roma, appena nata, è subito assurta a simbolo del calcio della capitale ed ha raccolto intorno a sé la grande massa degli appassionati più .ferventi, più accesi, più assolutisti nella esaltazione dell'oggetto del loro tifo. Sarà, forse, a causa degli stessi colori giallorossi della maglia, che sono i colori di Roma, o perché la attuale A. S. Roma fu la risultante della fusione di tre società, di cui due •popolarissime, Alba e Fortitudo, e una leggermente aristocratica, il Roman, fusione preceduta da quella fra Pro Roma e U.S. Romana e dell'altra fra Alba, Audace e Juventus (in modo che verso la Roma confluirono seguaci di ben sette società), il fatto indiscutibile è che la Roma è stata sempre la croce e la delizia degli appassionati romani, ha offerto grandi delusioni e altrettanto grandi soddisfazioni e, fra queste ultime, la conquista, nella stagione 1941-1942, del primo scudetto di campione d'Italia, interrompendo, sia pure brevemente, il tradizionale monopolio, in materia, delle squadre settentrionali. La stessa cosa doveva fare, qualche anno più tardi, la Fiorentina, guidata dal romano Fulvio Bernardini, e queste sono state le due sole interruzioni di una supremazia che inutilmente le società centromeridionali, cui si è aggiunto il Napoli, hanno cercato e cercano di annullare.

 Personalmente, ricordo i giorni di quella nascita che, circa un mese prima e cioè il 23 giugno 1927, era stata preceduta da quella di un giornale, « Il Tifone», che costituisce anch'esso (e scusate l'immodestia) una pietra angolare nella marcia ascensionale dello sport calcistico romano, giornale che venne fondato e diretto da Enrico Santamaria e dal sottoscritto. Ricordo, a proposito della fusione che avrebbe Portato alla Roma, le aspettative dei tifosi, i pareri favorevoli e quelli discordi, le reazioni dei dirigenti delle società che stavano per scomparire, fagocitate dal nuovo sodalizio, la decisione ferma, tenace, risoluta dell'ideatore della fusione che fu Italo Foschi, segretario federale dell'Urbe, innamorato della sua città di adozione, innamorato del giuoco del calcio, animato dalla grande speranza di dotare Roma di una squadra che fosse capace di mantenersi sullo stesso livello delle più celebrate del Nord. Era stata di quei tempi, infatti, la realizzazione della nuova regolamentazione dello sport calcistico italiano, la cosidetta «carta di Viareggio» dovuta alla iniziativa di Leandro Arpinati e al brillante intuito di Landa Ferretti, e la nuova formula aveva portato alla caduta di quella specie di linea gotica calcistica ante litteram che, allora, divideva il calcio del Nord da 'quello del Sud in due Leghe, con due campionati, organizzati su molti gironi e con una finale, ad andata e ritorno, fra le prime classificate delle due Leghe, finale che, invariabilmente, veniva vinta dalle società del Nord, meglio attrezzate, più ricche, più esperte, meglio fornite di giocatori di classe.

 Fu proprio la istituzione del campionato a carattere nazionale a rendere urgente e improrogabile la unione di tutte le forze calcistiche romane, sino allora disperse in tanti rivoli quante erano le società calcistiche della capitale, e cioè otto; ed è probabile che la fusione non ci sarebbe stata, o ad essa si sarebbe arrivati attraverso chissà quante difficoltà e lungaggini, se di essa non si fosse interessato, per l'appunto, Italo Foschi, autorevole per la carica che egli rivestiva ed energico per la forza del suo carattere e per il sincero entusiasmo che lo animava.

 Non ho alcuna intenzione di scrivere, qui, la storia della Roma, che, fra l'altro è stata oggetto di un brillante ed esauriente libro del giovane collega Gianni Lazotti, figlio di Umberto, caro e valoroso giornalista dei miei tempi; ma solo di rievocare qualche mio personale ricordo e di farlo alla buona, senza seguire un ordine prestabilito e senza citare date precise, anche per non correre il rischio di sbagliarle!

La primissima Roma dovette, per prima cosa, trovare un campo su cui svolgere la sua attività, un campo che fosse dotato di un minimo di installazioni per il pubblico e che permettesse di svolgere una attività a carattere nazionale.

Le società che avevano, direttamente o indirettamente, concorso alla fusione erano otto, ma nessuna di esse disponeva di un campo vero e proprio: chi giuocava sul Prato dei Daini a villa Borghese, chi sui vasti spazi del Flaminio ancora immuni dal successivo << boom » edilizio (il campo della Pro Roma si trovava sull'area dell'attuale piazza Apollodoro e l'Alba su quella del Lungotevere Matteotti, gremita oggi di alti palazzi), chi sui terreni acquitrinosi sui quali venne creato l'imponente complesso del Foro Italico. Soltanto la Fortitudo, alla Madonna del Riposo e il Roman, ai Due Pini, dove è poi sorto il Tennis Club Parioli ed ora si trova il Circolo dei Giornalisti Sportivi Romani, disponevano di: un terreno di giuoco, provvisto di una tribunetta (oltre la Lazio, con il campo della Rondinella), ma si trattava di impianti del tutto inadeguati ad ospitare un pubblico di appassionati che, nelle più audaci previsioni, si stimava potesse giungere ,persino a diecimila spettatori.

Italo Foschi e i suoi collaboratori (fra i quali mi piace ricordare i fratelli Piero e Giorgio Crostarosa, Ulisse Igliori, Sebastiano Bartoli, Renato Turchi, Ugo Barbiani, Vincenzo Biancone, questi ex arbitro di valore e ancora oggi segretario della società giallorossa, Enrico Giammei, Carlito Rosa, Mario Vioruffo, Alberto Iachia, Giuseppe Stinchelli e Renato Sacerdoti, il quale doveva essere il futuro presidente della Roma di Testaccio) scelsero infine il Motovelodromo Appio, che era stato costruito per le gare ciclistiche su pista e che, solo per caso, disponeva, nell'interno della pista in cemento, di un terreno che, con molta buona volontà, poteva essere considerato adatto alle partite di calcio: il terreno era abbastanza spazioso, tanto da poter permettere il rispetto delle misure regolamentari, ma senza erba, senza drenaggio, polveroso con il caldo e pieno di pozzanghere e di fango nella stagione invernale e, comunque, ogni volta che fosse piovuto. Ci si arrivava con il tranvetto dei Castelli e, nonostante la sua scomodità e gli impianti approssimativi, rappresentò un grande progresso rispetto ai campi che erano stati utilizzati sino ad allora.
La Roma vera, però, la Roma che si ricorda con maggiore nostalgia è la «Roma di Testaccio», come squadra generosa e tenace, forte e altamente qualificata anche sul piano tecnico, squadra ricca di energia e di entusiasmo, di vitalità e di attaccamento ai colori sociali, di tenacia e di spirito agonistico, squadra che lottava sino all'ultimo e non si arrendeva mai. Anche oggi, dopo che sono trascorsi tanti anni, lo cc spirito di Testaccio » viene invocato ogni volta che la squadra dà l'impressione di non impegnarsi a fondo, quando la sua condotta non pare proporzionata alle sue passibilità, o manca nei giocatori quella combattività che era, invece, dote peculiare dei giallorossi di quei tempi. Il campo di Testaccio sorse per iniziativa di Renato Sacerdoti (che era subentrato nella presidenza della Roma, avendo dovuto Italo Foschi abbandonarla, essendo stato nominato prefetto) che fu il presidente tipico •per una società come la Roma: entusiasta, ricco di felici iniziative, battagliero, fervente animatore e gran signore. Ricordo che una sera ci fu un pranzo nella sede sociale, che era in via Uffici del Vicario, pranzo cui partecipò anche l'on. Giuseppe Bottai il quale era Ministro non rammento bene di quale dicastero e che era uno dei più giovani deputati di quel tempo. Si trattava di un'alta personalità, dalla quale riuscii a farmi dare le venti lire che corrispondevano alla cifra dell'abbonamento annuo al «Tifone»!...

Il campo del Testaccio, che sorgeva fra il cosiddetto cc monte dei cocci » e il suggestivo e silenzioso cimitero degli inglesi, fu per una diecina di anni il teatro delle gesta giallorosse e su di esso si avvicendarono giuocatori di fama nazionale ed europea, come Fulvio Bernardini e Attilio Ferraris, Monzeglio, Allemandi e Barzan, Chini e Lombardo, Carpi, Fasanelli e Mattei, Guaita e Scopelli, il portiere Masetti, Costantino, Volk e tanti altri che egualmente contribuirono alla fama della società giallorossa. Erano già i tempi del professionismo, tuttavia gli aspetti ne erano diversi, si trattava di un professionismo, come dire, meno professionistico ... : per esempio aveva importanza che una squadra raccogliesse il maggior numero di giuocatori del posto ed era difficile che un atleta nato a Roma venisse ceduto a società di altre città. Così uno dei primi gesti della Roma fu quello di richiamare dall'Inter di Milano Fulvio Bernardini, il quale era allora, e lo è ancora oggi che i sessant'anni anche lui li ha passati, il simbolo dello sport calcistico romano: le formazioni giallorosse di quel tempo abbondavano di calciatori romani e quelli di altre città servivano solo come integrazione. Allora non sarebbe certamente occorso di vedere, come capita oggi, tanti giuocatori romani distribuiti in tutta Italia, come De Sisti e Merlo alla Fiorentina, Leonardi al Varese, Leoncini alla Juventus, Tiberi al Vicenza, Orlando al Napoli, ecc. La Roma era soprattutto una società romana composta di romani e questo spiega il suo carattere di compagine fiera e orgogliosa, il quasi morboso attaccamento degli atleti ai colori sociali e, di conseguenza, l'appassionata fedeltà dei sostenitori, quella fedeltà che oggi, quando la Roma navigava nelle alte zone della classifica, faceva andare dieci o dodici mila [ scritto separatamente, nell’originale] spettatori alle semplici sedute di allenamento!

A Testaccio, la Roma ha giuocato, come è ovvio, una infinità di partite, qualcuna delle quale anche deludenti, ma per la maggior parte prodighe di soddisfazioni, di successi anche esaltanti, come quello che i giallorossi conseguirono contro la Juventus di Combi, di Rosetta e di Caligaris, di Cesarini e di Orsi, la Juventus che, quella stagione doveva, poi, vincere il primo dei suoi .famosi cinque consecutivi scudetti. Quel giorno la Roma giuocò una grande partita, Ferraris IV immobilizzò il fenomenale Mumo Orsi, un'ala sinistra che non aveva eguali nel mondo calcistico, lo costrinse a spostarsi da sinistra a destra, nella speranza di sfuggire così al controllo di Attilio (speranza vana perché Ferraris IV lo seguì ne}.la nuova posizione), Bernardini giuocò in modo magistrale e così tutti gli altri atleti giallorossi; il risultato fu che la Roma riuscì a «mandare» (così si diceva allora) sul «Tifone» la famosa Juventus, battendola con il clamoroso punteggio di 5 a 0.

Quaranta anni non sono molti nella vita di un uomo e ancora di meno lo sono nella vita di una società sportiva che è eternamente giovane e continuamente si rinnova: per la Roma, il 1967 si  è chiuso bene e favorevoli auspici accompagnano l'inizio del 1968 che vede la Roma in buona posizione di classifica, •persino più in alto di squadre dal nome famoso e di grande tradizione. Non si può dire se, in questo comportamento, in verità inatteso, la Roma durerà, oppure non riuscirà a farlo : comunque, quanto essa ha compiuto nella prima parte del campionato è più che onorevole e il quarantennio di vita non avrebbe potuto essere festeggiato in maniera migliore».

Lunga vita a Roma!
Lunga vita alla Roma!
Lunga vita a noi!


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