Intervista a Naim Krieziu
che 62 anni fa, dopo l'annessione dell'Albania, venne a Roma e vinse uno storico scudetto

                                                     MATTEO PATRONO (11 febbraio 2001)
           Naim Krieziu è un vecchio signore di 82 anni che, ne avesse l'occasione, giocherebbe ancora a pallone: ha qualche acciacco alle ginocchia e un fisico gracilino, ma (parole sue) se la cava ancora bene. Nel 1939, sbarcò in Italia quando la prima ondata di oriundi sudamericani si stava esaurendo: molti, con la guerra alle porte, erano già tornati a casa o si preparavano a fare le valigie. Lui, kosovaro di Jakove, italianizzato dopo l'annessione dell'Albania da parte di Mussolini, venne a Roma per iscriversi all'Isef e diventare professore di educazione fisica, ma finì invece per fare il calciatore e vincere, da oriundo, il primo scudetto della capitale. In Italia fece una buona carriera: era un'ala destra veloce e potente, bravo con entrambi i piedi e dotato di una discreta propensione per il gol. Giocò per 10 anni nella Roma, poi nel '48 si trasferì a Napoli, dove passò 8 stagioni. Appese gli scarpini al chiodo a 35 anni, disputando un campionato in quarta serie, poi tentò l'avventura in panchina ma non ebbe fortuna. Provò come osservatore e scoprì Giannini, ma lasciò perdere e si dedicò alla tintoria presa in gestione quando ancora sudava in panchina: "Era stata una buona occasione. Poi un giorno il propietario mi chiese una cifra spropositata e io gli dissi: ma che ti pare che sto qui a lavorare per te? Mollai tutto (13 anni fa) e da allora, con mia moglie, viviamo della nostra pensione".
- Il calcio le ha regalato fama e fortuna. Diventare italiano le cambiò la vita?
Scappai dal Kosovo giovanissimo, perché era occupato dagli jugoslavi. Mi rifugiai a Tirana, dove c'era mio fratello che faceva l'ufficiale e continuai gli studi. Fu lì che cominciai a giocare a calcio: a 15 anni ero già in serie A e a 16 in nazionale. L'Albania era già da tempo sotto il dominio italiano: il governo mandò a Tirana un professore di educazione fisica affinché si
occupasse dell'organizzazione sportiva locale; questi mi vide giocare e, essendo un tifoso della Roma, fece una segnalazione al
club capitolino. Io non avevo il vostro passaporto ma dopo l'annessione ero considerato italiano a tutti gli effetti: decisi di andare a Roma a studiare e qui fui contattato da un dirigente della Roma per fare un provino. Io parlavo solo qualche parola di italiano e chiesi ad un amico albanese che studiava all'università di accompagnarmi. Prendemmo un taxi e raggiungemmo il campo Testaccio: feci un breve allenamento e il giorno dopo disputai la partitella infrasettimanale. Avevo un bel tiro, ero un ottimo atleta, quando scappavo sulla fascia ero imprendibile. In mezzo a Masetti, Donati e Amadei feci una buona figura e alla fine della partita un dirigente mi portò a via del Tritone, dove c'era la sede della società, e mi fece firmare il mio primo contratto. Non potevo credere ai miei occhi, mi sembrò di toccare il cielo con un dito. Debuttai in campionato quasi subito, contro il Bari del mio connazionale Lushta: vincemmo 4-2. Il Testaccio era pieno come nei giorni migliori, il pubblico batteva i piedi sulle tribune di legno e produceva un frastuono incredibile: a un certo punto scesi sulla fascia, feci un bel cross e Pantò, l'attaccante argentino, segnò un gol facile facile. Allora, dopo i festeggiamenti, un signore si alzò dalla tribuna e mi gridò: "Ma se' po' sapè come cazzo te chiami?". Io lo ringraziai e dopo un inchino ripresi a giocare.
- Che idea si è fatto di questa vicenda, molto italiana, dei passaporti truccati?
Sarò sincero, ci sono rimasto male. Nel calcio di oggi ci sono troppi interessi: questi ragazzi son disposti a fare qualunque cosa pur di venire a giocare in Italia, ma non sono gli unici responsabili di questa situazione. Ognuno pensa al proprio interesse: i giocatori, le società e i manager, che sono dei figli di buona donna... Ma come è possibile falsificare dei passaporti per giocare a pallone? Mi vergogno di questo calcio. Ora stanno indagando anche sui brasiliani della Roma: Aldair è 10 anni che sta qui, possibile che solo ora si decida di controllare se i suoi documenti sono in regola? Mi fa star male sentire queste storie. E col campionato come la mettiamo? Squalifiche, penalizzazioni, multe: che cosa diventerà? Quando alla tv sento che cominciano a parlare dello scandalo dei passaporti, preferisco cambiare canale perché è una cosa che non riesco a mandar giù. Temo che alla fine diranno che era "tutto fumo e niente arrosto": non puniranno nessuno, al massimo per accontentare la gente toglieranno un punticino a qualcuno, ma niente di più. Il rischio è che di fronte ad una buffonata così si perda la voglia di
fare il tifo. E magari alla fine lo scudetto lo vince come al solito la Juventus, che a leggere i giornali sarebbe l'unica società pulita...
- Si dice che anche ai suoi tempi le naturalizazzioni non fossero del tutto regolari. Se la sente di fare un confronto fra gli oriundi di allora e quelli di oggi?
Ai miei tempi era un altra cosa: c'era il mio amico Pantò, c'era Providente. Erano veramente oriundi, i loro passaporti erano più che regolari: me li ricordo perché quando andavamo in trasferta se li portavano sempre dietro. La vera differenza però è che fra gli oriundi di allora ce ne erano pochi, forse 5 o 6, che facevano la differenza: Guaita, Demaria, Andreolo. Gli altri venivano qui a guadagnare ma sarebbero potuti restare a casa. In serie C c'erano tanti italiani molto più bravi di loro. Bastava il nome, oriundi, per far credere alla gente di aver trovato l'America e invece pochi di loro erano davvero all'altezza. Oggi in Italia arrivano grandi campioni stranieri in quantità industriale. Certo, ci sono anche i bidoni, ma a Cafu, a
Veron, cosa gli vuoi dire? Son giocatori meravigliosi che danno del tu al pallone e ti fanno innammorare del calcio. Io, in 10 anni di Roma, ho fatto sempre il mio dovere, senza rubare nulla: la gente, i compagni e la società mi hanno sempre voluto bene.
- Forse perché quando scoppiò la guerra, lei decise di restare in Italia...
Mi fermai a Roma per continuare a giocare. Ero innamorato di questo paese e non volevo scappare per nessun motivo: fu allora che cominciai a sentirmi davvero italiano. Durante la guerra la società ci diede pochissimi soldi: giusto in occasione dei derby, che garantivano sempre il pienone, ricevevamo qualche lira in più. Io però avevo messo in banca i miei risparmi e la vita non era poi così costosa. Per lo scudetto, al quale avevo contribuito con ben 6 gol, ci diedero 500 lire a partita, davvero una bella somma. Venire a giocare in Italia fu un sogno meraviglioso. Avrei tanto voluto vestire la maglia azzurra, ma convocarono solo il mio amico Lushta. Che onore sarebbe stato...
Kriezu


 
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